Ci sono eventi che segnano inesorabilmente il destino di una città. Il terremoto di Lisbona del 1755, ad esempio, sconvolse tutto il Portogallo radendo pressoché al suolo la capitale. È corretto dire, infatti, che la storia della città si divide in due grandi lassi temporali: prima del terremoto e dopo la ricostruzione.
Una catastrofe senza precedenti
Il tremendo terremoto di Lisbona del 1755 ebbe luogo durante la festività di Ognissanti, molto importante per i cattolici portoghesi. L’intera città si stava dirigendo verso gli edifici di culto per assistere alla messa, quando alle 9.30 un assordante boato fece sobbalzare il terreno sotto i piedi degli abitanti. Era solo la prima delle tre violenti scosse che rasero al suolo la città in soli 6 interminabili minuti. Soprattutto la seconda arrivò a 8,7 gradi della scala Richter. Al termine del sisma la città era un cumulo di macerie. Le fiamme, causate dalle candele e bracieri che erano accesi al momento del sisma, divamparono per cinque giorni. Molti lisboeti (quelli che riuscirono ad arrivarci) si rifugiarono sulle colline circostanti, dove si ritrovarono impotenti ad osservare questo triste spettacolo.
La sorte peggiore toccò a coloro che si trovavano vicino al Fiume Tago. Il sisma, infatti, causò uno tsunami con un’onda di quasi venti metri che inghiottì ogni cosa nelle vicinanze della costa, compreso il Palazzo Reale. I regnanti si salvarono per una pure coincidenza. Quella mattina, infatti, avevano deciso di assistere alla messa al Monastero dos Jerónimos, che si trova in una zona poco colpita dal sisma. Al termine dell’evento un terzo degli abitanti della capitale era morta sotto le macerie, fra le fiamme divampate in città o a causa del maremoto. I danni al patrimonio culturale furono altrettanto ingenti. Decine di chiese collassarono, molte opere d’arte del Palazzo Reale e gran parte della biblioteca di re José I andarono distrutti. Lo stesso re non riuscì più a vivere al centro della città a causa dello choc.
La ricostruzione e il dibattito intellettuale
Un’enorme catastrofe come quella del terremoto di Lisbona poteva anche porre fine alla storia di una città. Ma i lisboeti reagirono con grande coraggio e determinazione. In particolare, è rimasta nella storia la frase del primo ministro, il Marchese di Pombal. Egli, infatti, diede immediatamente inizio alla ricostruzione affermando che era necessario « seppellire i morti e dare da mangiare ai vivi »; coordinò i soccorsi iniziali, al fine di spegnere gli incendi e recuperare i cadaveri, e incaricò vari architetti di riprogettare la città, utilizzando tecnologie antisismiche molto avanzate per l’epoca.
Il terremoto generò una polemica tra i più grandi pensatori dell’epoca. Il gesuita italiano Gabriele Malagrida lo interpretò inequivocabilmente come un castigo divino; per le sue idee “retrograde” fu mandato in esilio a Setúbal dal governo “illuminato” del Marchese di Pombal. Il francese Voltaire dedicò un poema al sisma, in cui polemizzava con l’ideologia ottimistica di filosofi come Leibniz, il quale affermava che « l’uomo vive nel migliore dei mondi possibili ». Jean-Jacques Rousseau spinse con veemenza l’amico a riflettere sull’impatto dell’intervento dell’uomo sul contesto ambientale.
Il filosofo svizzero, infatti, affermò che « la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto ». Leggendo queste parole oggi si può capire quanto il pensiero di Rousseau fosse moderno e profetico, ponendosi quasi come un monito alle generazioni successive alla sua.